Volontariato in Kenya tra i ragazzi di strada
Il racconto di un “Musungu”
Di Francesco Semeria
Incontri preparatori
Scriveva Conrad che nella vita di un giovane arriva un periodo in cui egli scorge una linea d’ombra che lo avvisa che la prima giovinezza deve essere lasciata indietro. Questo è il periodo della vita in cui è probabile che arrivino i momenti di noia, di stanchezza, di insoddisfazione. Anche questo ha influito sulla mia scelta di fare richiesta per un campo estivo di volontariato in Kenya, ma da diversi anni m’incuriosiva questa opportunità offerta dall’associazione “La Goccia”, una ONLUS di Senago (MI) che da anni conoscevo tramite la mia famiglia. Inviata la richiesta, ho sostenuto un colloquio conoscitivo ed informativo sui dettagli del campo: nelle tre settimane in Kenya, avrei passato la maggior parte del tempo al centro per ragazzi di strada “Napenda Kuishi” (“Voglio vivere” in lingua Swahili) di Kibiko, a una trentina di chilometri da Nairobi, oltre a visite ad alcune delle quasi 200 baraccopoli della capitale e ai progetti di altre associazioni di volontariato al loro interno. Ho partecipato ai diversi incontri di formazione durante i mesi precedenti la partenza, ho così avuto modo di fare amicizia con i miei futuri compagni di viaggio, conoscere la nostra guida Roberto, incontrare il Padre comboniano direttore di “Napenda Kuishi”, Maurizio, e soprattutto organizzare le attività che avremmo svolto con i ragazzi del centro. A noi otto ragazzi del gruppo è stato detto da subito che l’obiettivo di questa esperienza non era “andare a salvare l’Africa”, ma conoscere la difficile realtà dei ragazzi di strada. Inoltre ci è stato raccomandato di vivere con naturalezza ogni momento, senza pretendere di capire tutto ciò che avremo visto, perché “Questa esperienza non vi darà risposte immediate, ma vi aiuterà a porvi le giuste domande in futuro”.
Partenza e primo impatto
Il 30 luglio siamo partiti e dopo un lungo viaggio siamo arrivati a notte fonda all’aeroporto di Nairobi, dove ci attendeva Kevin, un amico fraterno di Roberto. Da lì, con un pullmino (“matatu” in Swahili) siamo giunti a Kibiko, accolti dal coordinatore del centro John con un the caldo, molto gradito da tutti, viste le basse temperature che si raggiungono di notte in quei luoghi, a quasi 1900 metri di altitudine. Il giorno seguente abbiamo fatto conoscenza con i quasi venti ragazzi che vivono nel centro, seguendo un percorso di disintossicazione e reinserimento scolastico, e con gli altri membri dello staff che li seguono ventiquattro ore al giorno nel periodo che essi trascorrono nel centro, solitamente un anno. Nei discorsi di benvenuto, molti ci hanno invitato a sentirci a casa, parte della loro grande famiglia: non dovevamo quindi comportarci da visitatori, ma condividere con loro il più possibile gli aspetti della loro vita. Scambiando le prime parole con loro, in inglese ovviamente, abbiamo scoperto che lo sport era un modo per entrare rapidamente in relazione con loro: c’era un campo da calcio e uno da pallacanestro e i ragazzi spesso li utilizzavano, confrontandosi in partite che duravano anche pomeriggi interi. I membri dello staff, che spesso prendevano parte alle sfide, ci hanno spiegato come per dei giovani cresciuti in strada, dove vige la legge del più forte, la competizione sportiva assume dei significati particolari, e per questo cercavano di insegnare il valore del gioco di squadra, mentre istintivamente i ragazzi sarebbero tentati da giocare individualmente per dimostrare di essere i migliori. La maggior parte dei ragazzi del centro andava a scuola alla Kibiko Primary School, che abbiamo visitato nei primi giorni: lì ci siamo resi conto dell’enorme differenza che ancora separa le scuole pubbliche di quei posti rispetto agli standard Occidentali, anche se a Kibiko la scuola aveva un laboratorio informatico perfettamente funzionante che gli alunni adoravano al punto di saltare l’intervallo per continuare ad esercitarsi ai programmi educativi che tramite simpatici giochi insegnavano le varie materie. Molti dei ragazzi del centro avevano perso uno o più anni di scuola avendo vissuto in strada per diverso tempo, e per alcuni il reinserimento scolastico non era semplice: per questo motivo uno dei progetti futuri di Padre Maurizio è costruire nel centro un laboratorio di falegnameria e metallurgia, per dare ai ragazzi anche la possibilità di una formazione professionale.
Un altro mondo. Contatto con la baraccopoli
I ragazzi provenivano quasi tutti da Korogocho, una delle baraccopoli nella periferia di Nairobi, sorta nelle immediate vicinanze della discarica di Dandora, dove i bambini di strada e tantissime altre persone disperate si recano per cercare cibo o qualsiasi oggetto da poter rivendere per potersi sfamare. A Korogocho ci sono altri due centri, solo diurni, gestiti dai comboniani, “Boma Rescue” e “Kisumu Ndogo”. Quando siamo andati a visitarli siamo rimasti scioccati dalla realtà della baraccopoli: già a diversi chilometri di distanza l’aria è pervasa da un odore acre, che via via diventa sempre più forte e nauseante. È l’odore della discarica, che chi vive lì ormai non percepisce più, ma che assieme a quello altrettanto fetido dei canali ai lati delle strade, usati come fogne a cielo aperto, e ai bassissimi livelli d’igiene, ha effetti devastanti sulla salute degli oltre due milioni di persone che abitano queste baraccopoli . “Boma Rescue” è a meno di un centinaio di metri dalla discarica, a primo impatto ricorda un oratorio ed è aperto a tutti i bambini e ragazzi, maschi e femmine, che vogliono entrarvi; lì abbiamo conosciuto altri volontari italiani e tedeschi che aiutavano gli assistenti sociali, che cercano di entrare in relazione coi bambini e ragazzi della baraccopoli individuando i casi più problematici che, col consenso delle autorità, vengono trasferiti a “Napenda Kuishi”. “Kisumu Ndogo” è in un altro punto della baraccopoli, e funziona analogamente: qui lo staff è specializzato nel trattare ragazzi grandi, spesso tossicodipendenti e ladri nella baraccopoli. Camminando per le baraccopoli una moltitudine di bambini ci venivano incontro sorridenti per salutarci, al grido “Musungu, musungu!” (“Musungu” in Swahili è un termine generico che indica l’uomo bianco europeo): lo stereotipo dell’uomo bianco, ricchissimo per definizione, è molto diffusa tra gli abitanti, giovani e adulti, delle baraccopoli, e non è semplice spiegare loro l’errore di questo preconcetto. Nelle altre baraccopoli che abbiamo visitato, abbiamo conosciuto l’importante lavoro di altre organizzazioni di volontariato e degli istituti religiosi missionari: nella baraccopoli di Soweto-Kayole, l’organizzazione “Centofarfalle” di Verona accoglie bambini e bambine tra i più bisognosi nel suo centro, garantendo loro alimentazione e istruzione scolastica, mentre ad Huruma le Suore di Madre Teresa si occupano dei disabili, anche gravi, della baraccopoli, altrimenti destinati all’abbandono.
Resilienza. Esperienza con i ragazzi del centro
Ricordandoci dell’invito alla condivisione, abbiamo cercato di stare il più possibile con i ragazzi del centro, giocando assieme a loro, mangiando con loro, imparando i loro balli e qualche parola di Swahili, la loro lingua. Con l’aiuto dei ragazzi, tra le altre cose, abbiamo allestito un laboratorio informatico con i computer portatili messi a disposizione dall’associazione “Agara” di Malta, abbiamo costruito un campo da pallavolo e abbiamo organizzato le Olimpiadi di “Napenda Kuishi” per far gareggiare i ragazzi, divisi in squadre, in diverse discipline: tutti infine sono stati premiati. Il lunedì dell’ultima settimana siamo andati in gita al Lago Naivasha, nella rift valley kenyana, dove abbiamo visto moltissimi animali tipici della savana africana: gazzelle, ippopotami, giraffe, zebre… fino ad allora li avevamo visti solo nei documentari! Uno degli ultimi giorni c’è stata una messa assieme ai ragazzi degli altri due centri dei Padri Comboniani: oltre ai bellissimi canti, molto toccante è stato il momento in cui i ragazzi di “Kisumu Ndogo” hanno presentato come dono all’altare una scatola contenente i loro coltelli, le bottigliette che utilizzavano per sniffare la colla, la droga più comune nelle baraccopoli, e alcuni oggetti che avevano rubato: un bellissimo gesto, indice della volontà di cambiare vita. Nei momenti di riflessione che noi del gruppo di volontari ci riservavamo, ci siamo accorti della grande capacità delle persone delle baraccopoli ( la resilienza) di vivere in maniera quanto più dignitosa, sempre col sorriso e disponibile verso il prossimo, in un contesto di disperazione, insicurezza ed estrema povertà, senza lasciarsi abbattere dalle avversità della vita: negli ultimi anni si ha notizia di un solo suicidio a Korogocho.- Il momento della partenza per fare ritorno in Italia è stato molto commovente. I ragazzi ci hanno salutato calorosamente invitandoci a tornare presto, pronti ad accoglierci nuovamente nella loro grande famiglia. Non so se mi sarà mai possibile incontrarli nuovamente, ma certo è che non dimenticherò mai i loro volti sorridenti.