Tradizioni popolari nella Valle dell’Aniene
I
mparare il
mestiere
Un tema
ancora attuale
“Andare a bottega” per imparare un mestiere direttamente da
un artigiano anziano era la sorte di moltissimi ragazzi, per i quali non si
poneva neppure l’alternativa di una scolarizzazione
prolungata dopo la scuola elementare.
Sui dieci - undici anni,
il padre-padrone disponeva tutto: sceglieva l’artigiano, lo contattava, si
accordava in qualche modo, poi ordinava al figlio di andare in quella bottega.
Barbieri, fabbri, falegnami, sellai, sarti, calzolai...
accettavano nella loro bottega questo ragazzo – di solito un po’ recalcitrante
– e incominciava un difficile rapporto.
In teoria si sarebbe dovuto trattare di una vita in comune tra
mastro-(maestro) artigiano e apprendista, segnata la cordialità, comunicazione,
insegnamento diretto e indiretto delle tecniche di lavorazione:materiali,
strumenti, attenzioni, perfezionamenti, spese, clientela.
In realtà il mastro-artigiano era spesso burbero e brusco:
sembrava che solo così l’allievo si piegasse ad apprendere mediante il fare.
Le spiegazioni quasi non c’erano: il ragazzo doveva
“rubare” con gli occhi tutti i segreti del mestiere. Se
sbagliava a portare al padrone un certo attrezzo erano
sberle sonore! Quei benedetti attrezzi avevano nomi strani e diversi da luogo a
luogo e spesso da artigiano ad artigiano: “sgrussinu”, chiave
del sette, chiavarda, ed altro
ancora, secondo il mestiere.
A poco a poco il ragazzo – che intanto produceva
effettivamente a favore del padrone e senza compenso e senza assicurazioni di
sorta – nonostante tutto, imparava
il mestiere.
Per le ragazze, destinate normalmente alla sartoria e al
ricamo, tutto sembrava più naturale e lieve.
In realtà la sarta “rifinita”
teneva le ragazze in una continua conversazione (questo sì) ma mai sulle
lavorazioni. Per mesi e anni le ragazze dovevano fare imbastiture, asole,
prendere misure, cucire passamano, prima di poter
mettere le mani in fasi più difficili del lavoro sartoriale. “Tagliare”, la stoffa, poi, era un rito
da cui le ragazze erano tenute lontane per anni.
Al posto degli schiaffi, per ogni errore, c’erano il
rimbrotto e il motteggio, anche da parte delle altre apprendiste. Nei casi
migliori erano le monache nei monasteri che insegnavano taglio, cucito, ricamo,
rammendo e rattoppo. Certo senza seguire alcuna moda per gli
abiti, e senza i capi costosi e raffinati...
Arrivava il momento, per i giovani e le giovani
più volenterose, di prendere il volo e tentare di mettersi in proprio.
Allora scattava tutta la gelosia dell’artigiano provetto. Sembrava
che mai nessuno potesse essere considerato pronto per aprire a sua volta bottega
in proprio. Ogni avvisaglia in questo senso era considerata un vero tradimento...
perché, in fondo, si temeva la concorrenza di uno/a più giovane, capace anche,
forse, di innovare in qualche lavorazione, più attento alla moda, più amico di
altri giovani, più capace di viaggiare e visitare
altrove altre botteghe, di ricevere riviste specializzate nel mestiere. Alle sartine era consigliato di cucire solo per sé e per il
proprio corredo nuziale, e, in seguito per la sua famiglia, senza lavorare per
gli altri.
Per secoli è andato così perché “impara l’arte e mettila da parte”, e “l’ozio è padre dei vizi”...
In fondo, si pensava, è sempre meglio fare l’artigiano che il bracciante “sotto padrone” o il contadino,
specialmente se con
poca terra.
Questo a Subiaco, nell’area
circostante e in genere in Italia.
E in Europa?
Per quello che ne sappiamo dalle
scarse pubblicazioni in materia, le cose andavano un po’ (ma solo un po’)
meglio. Nella Germania tradizionale,
In Inghilterra s’imparava un
mestiere “sedendo accanto a Nelly” –
come si diceva, cioè vedendo nella bottega ciò che faceva il “capo”.Ma
c’erano moltissimi e poverissimi Oliver
Twist, che non potevano andare a scuola e venivano sfruttati nelle miniere (
scavando a mani nude negli anditi più angusti, dove solo loro potevano
calarsi). K. Marx riferisce dei terribili rapporti scritti degli Ispettori di
Sua Maestà, che descrivevano appunto la sorte dei minorenni sottratti all’ istruzione di base.
E oggi?
Apparentemente oggi l’apprendistato non c’è.
Tutti ne parlano, lamentando che “questi sono gli ultimi artigiani”, che si è perso il gusto della
manualità, che la scuola ha cambiato tutto e ha fatto finire la vita artigiana,
un tempo nerbo e vanto delle nostre popolazioni.
Comuni e provincie propongono “borse di lavoro” artigiano, salvano le
ultime botteghe nei centri storici, organizzano fiere e mercati locali.
Ma il declino delle botteghe artigiane prosegue, nonostante
tutto, anche per l’incremento delle produzioni industriali a basso costo, supermercati,
importazioni facili, vendite on line e
l’abbassamento del gusto estetico .
Le maglieriste,
non esistono più, così come le rammendatrici, le ricamatrici, i maniscalchi e i
sellai, gli arrotini, per non dire degli spazzacamini e ambulanti vari
O meglio, qualche giovane
“intellettuale” ritorna ad un artigianato artistico di nicchia in cerca di mercato.
A Camerata Nuova costruiscono antiche arche ,
altri si dedicano al restauro di mobili …altri re-inventano giorno per giorno
produzioni destinate al turismo di élite.
Che fare?
Se un mestiere è scomparso per i
cambiamenti nelle tecniche produttive e del gusto delle persone, è inutile
insistere: non ci sarà più.
Ma se una produzione artigianale merita di resistere, allora , per formare artigiani occorre passare per gli
istituti d’arte.
La strada sarà lunga, ma si esce non
solo con un diploma, ma conoscendo le tecniche più aggiornate e anche le
richieste attuali del mercato.