Il Lavoro – punizione o vocazione?

Il concetto pagano e cristiano di lavoro e la sua importanza per la costruzione e conservazione della comunità

Beatrix Erika Klakowicz (Dr.phil., Dr. theol)

 

Scrive Giovanni Paolo II nella Centesimus annus (n.24): “L’uomo è compreso, in modo più esauriente, se viene inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell’esistenza. … Al centro di ogni cultura sta l’atteggiamento che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio. Le culture delle diverse nazioni sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso dell’esistenza personale: quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle nazioni”. Tra questi eventi fondamentali il pontefice pone accanto a nascere, amare e morire il lavoro, parte essenziale della “vocazione di ogni persona” (ibid. n.6).

Non si può negare che questa considerazione del lavoro contrasti con quanto riferito nei versetti Gen 1, 17-19. Certo, l’esegesi biblica, basandosi sulla critica testuale e sulla definizione semantica e grammaticale dei termini ebraici, ha dimostrato che le parole Gen 1, 19 - «Col sudore della tua fronte di procurerai il tuo pane» - non intendono il lavoro di per sé quale punizione, ma solo il peso che l’essere umano percepisce dopo aver perso l’originale somiglianza con Dio. Ciò nonostante, la concezione negativa del lavoro si è infiltrata anche in ambienti cristiani, travisando la sua vera dimensione, costantemente ribadita dalla dottrina sociale della Chiesa. E non bisogna subito pensare allo Gnosticismo antico e moderno, che distingue tra il Dio Creatore dell’Antico Testamento, irascibile e vendicativo, e il Dio Padre dives in misericordia dei Vangeli.

Le difficoltà causate dai versetti della Genesi sono tanto più gravi in quanto non si tratta di una discussione meramente accademica su significato e valore del lavoro. Infatti, vasti ambienti in tutto il mondo vi trovano una «giustificazione» per degradare il lavoro a strumento di ricatto, di oppressione, di tortura, e per considerare l’homo laborem exercens una merce “il cui prezzo è regolato dalla legge di domanda e offerta”[1]. Pure i movimenti e organismi, impegnati nella difesa dei diritti umani e nella costruzione di una società più giusta[2], considerano il lavoro innanzi tutto nei suoi aspetti giuridici ed economici.

Ma a prescindere dai diversi riferimenti di papa Giovanni Paolo II alle vicende storiche anche nei confronti del lavoro, nessuno di quanti si occupano di lavoro e giustizia sociale si è mai seriamente interessato ai risultati che le varie discipline «storiche» hanno raccolti in decenni di laboriose ricerche scientifiche. Eppure, un po’ di attenzione prestata a quei risultati avrebbe evitato non poche discussioni e deviazioni nella corretta concezione del lavoro e quindi della persona umana, risparmiato non poche umiliazioni ai bisognosi, ed evitato tanti affannosi sforzi per accumulare ricchezze materiali. La prima di queste discipline, che da tempo si sarebbe potuta e dovuta consultare, è l’Orientalistica. La cospicua documentazione archeologica e letteraria, raccolta sin dalla fine del Settecento in numerosi siti di tutta l’area dell’Antico Oriente, dalla sponde del Mediterraneo fino al Tigris, ha fornite copiose e notevolissime prove per la dimensione sia religiosa che «sociale» del lavoro, sostenuta da quelle popolazioni sin dalla fondazione delle prime città secondo una visione più «cristiana» che non «antico-testamentaria».

Infatti, i più antichi segni, apparsi sugli strumenti di lavoro, avevano messe le varie attività umane in rapporto con la divinità, da permettere una concezione del lavoro quale liturgia divina. Ma ben presto l’essere umano sentiva il bisogno di celebrare questa liturgia del lavoro non nell’isolamento, bensì in unione con altri, «anticipando» quasi la dottrina sociale della Chiesa, che secoli più tardi assegnerà al lavoro “una dimensione «sociale» per la sua interna relazione sia con la famiglia, sia anche con il bene comune”[3].

L’uomo dell’Antico Oriente si comprendeva perciò quale servitore della divinità, al quale era stato affidata una missione da compiere insieme ad altri uomini e donne in mezzo alle realtà create e in favore di queste ultime. Così, scendendo nei secoli, i segni su utensili e attrezzi della vita quotidiana si facevano sempre più differenziati, quanto più gli esseri umani si trasformavano da nomadi in sedentari, che dovevano e volevano dare un ordinamento concreto alla loro vita comunitaria. Sentendosi costantemente guardati e accompagnati dalla sovrana divinità, che istituisce e custodisce la comunità umana con tutto quanto la circonda, i diversi segni, antenati della scrittura, non erano ornamenti accessori o addirittura superflui, bensì portatori di un significato, di un messaggio, che «rivendicava» al lavoro la sua importanza fondamentale per la costituzione e conservazione della comunità umana, dalla famiglia alla città, allo Stato. Quegli uomini e quelle donne, che sin dal 5.000 a Chr. popolavano le città, erano convinti che nessun essere umano è insignificante o addirittura un peso per gli altri, poiché nessuno lavora per sé e da solo, ma in e per una comunità. E questo principio fondamentale valeva anche per coloro, che in una società consumistica non trovano posto, perché non si concede loro una ragion d’essere.

Con una sbalorditiva conoscenza dell’indole umana le varie comunità cittadine s’industriavano, da un lato, - ed è sempre l’evidenza archeologica che lo dimostra - a conformarsi sempre meglio all’armonia cosmica, riprodotta en miniature dalle città, nel pieno rispetto di tutto quanto la circonda; e, d’altra parte, di tramandare le esperienze fatte e i traguardi raggiunti alle future generazioni, affinché ne conservassero gli aspetti positivi e migliorassero quelli imperfetti. Per tale ragione, le maestranze che lavoravano verso la metà del IV millennio nei templi di Uruk, la città di Gilgameš, creano con i mosaici policromi a figure geometriche una «pedagogia del lavoro» e del suo significato per l’educazione civica, dove ogni particolare è ugualmente essenziale, ugualmente incisivo; dove l’assenza anche della più minuscola tessera minaccia la stessa esistenza dell’intera composizione.

Senza dubbio esistevano anche coloro che cercavano di prevaricare, di sfruttare il lavoro degli altri, di trarre profitto dalle disgrazie altrui; ma le diverse codificazioni di legge sumero-accadiche del III millennio a.Chr., assorbite dal Codex Hammurabi del XVIII sec., insegnano che le comunità civili arginavano quanto meglio questi mali e ponevano limiti alle ingiustizie, infliggendo severe pene a chi disturbava l’armonia cosmica «visualizzata» dalla città.

Inoltre, nella ricca documentazione sumero-accadica sulla vita sociale ed economica delle città non poche tavolette ci parlano di prestiti a tasso zero, concesso senza alcun pegno da privati a chi si trovava in difficoltà. Senza esagerazioni possiamo vedere in quei gesti un lontano precursore di quel “principio di solidarietà (che) Leone XIII chiamò «amicizia»”[4]. L’unica correzione da apporsi dunque al testo della Rerum novarum sarebbe che, stando alle tavolette sumero-accadiche, la philia è assai più antica della filosofia greca, e per di più di origine orientale.

Non meno stupende sono le numerose testimonianze hurriche del II millennio, i cui archivi familiari – e sono innanzi tutto quelli di Kirkuk e di Nuzi – rivelano rapporti di stima e affetto tra padroni e servi, tra datore di lavoro e operaio, uomo e donna che fosse. E se i padroni dimenticavano i loro doveri verso chi lavorava per loro, i tribunali hurriti ravvivavano la loro memoria e salvaguardavano i diritti degli operai, liberi o servi che fossero. Merita in questo contesto particolare attenzione il fatto che gli eredi degli Hurriti, gli Etruschi, venendo in Italia, portarono con sé questo diritto sociale e lo applicarono nella vita quotidiana, come hanno dimostrato – con grande sorpresa degli studiosi – le tabulae ceratae di Ercolano, che ci appaiono quasi come traduzioni latine degli originali hurrici: la stessa e identica casistica, le stesse e medesime sentenze giudiziarie.

Finché questa filosofia, che non fu un vano indagare su Dio e il mondo ma autentico amore della saggezza, rimaneva tale, finché le cosiddette scienze esatte - matematica, geometria e astronomia - non venivano degradate a speculazioni teoretiche, ma continuavano a essere ricerca, approfondimento e visualizzazione dell’armonia cosmica e con ciò dell’ordine improntato dal divino Creatore a tutto l’universo, le città dell’Anatolia, della Siria e della Mesopotamia avevano la forza non solo per difendere il concetto di lavoro e i valori civili contro gli invasori che sin dalla fine del III millennio irrompevano nelle città mesopotamiche, attratti dal benessere dei loro abitanti. Comunque, l’evidenza archeologica e letteraria prova che quegli invasori, trovandosi di fronte alla sorgente di tale benessere, non avevano altra scelta che andarsene quasi subito oppure inserirsi nella compagine civile, accettandone le convinzioni spirituali e le tradizioni socio-politiche. L’esempio classico di questa capacità del concetto di lavoro e dei valori civili di resistere agli attacchi anche esterni, l’offre l’Anatolia (l’odierna Turchia). Verso il 1.800 a.Chr la prima grande onda migratoria indoeuropea, e precisamente gli Ittiti, irrompono in queste terre nell’intento di sottometterne le popolazione, ridurle in schiavitù e appropriarsi dei loro beni materiali. Ma le secolari convinzioni religiose e tradizioni civiche erano ancora talmente vigorose da costringere gli invasori ad adottare la precedente realtà politica, sociale ed economica, e da convincere gli dèi indoeuropei a cercare un «accomodamento matrimoniale» con le divinità anatoliche. Solo nella legislazione eteo-hurrica si nota qualche cambiamento: da un lato inasprite nella punizione dei malfattori, le Leggi meso-etee della metà del II millennio a.Chr. introducono – per la prima volta nella storia del diritto – il concetto del perdono.

Tanto vigorosi dovevano essere questi insegnamenti su lavoro e comunità civile, esposta dai mosaici dei templi di Uruk, da esercitare la propria forza d’attrazione anche su regioni molto lontane. Infatti, nel 1970 si rinvenne a Porto Bradisco in Terra d’Otranto uno tra i più interessanti complessi pittorici dell’Europa neolitica. Quasi un unicum sul continente europeo, le pitture parietali sono di singolare importanza non solo per le raffigurazioni stesse, ma per il contesto socio-politico, in cui esse si inseriscono. Infatti, databili verso il 3.000 a.Chr., il soggetto preponderante ne sono le figure geometriche, le quali richiamano, sebbene nel loro groviglio di spirali, intrecci e linee a zig-zag, le armoniose composizioni della ceramica mesopotamica e soprattutto dei mosaici policromi dei templi di Uruk. Ma quel che importa ancor più è che questa opzione per i motivi geometrici e il conseguente passaggio dalle raffigurazioni concrete e naturalistiche del Paleolitico alle forme astratte e universalistiche del Neolitico coincidono con la trasformazione delle precedenti strutture abitative dei nomadi nei villaggi ben organizzati degli artigiani e agricoltori sedentari: Un profondo mutamento dei modi di vita, importato dal Vicino Oriente, tanto più importante quanto esso celebrerà millenni più tardi proprio in Puglia uno straordinario come-back a contatto con la spiritualità benedettina dell’Ora et Labora.

Purtroppo, gli assalti – sempre più frequenti e virulenti – alle comunità cittadine, indebolivano le città in Oriente e tutto quanto esse avevano difeso durante secoli, trascinando tutto nella generale rovina del 1.200 a.Chr. Quando, poi, all’alba del I millennio sorgono sulle rovine ancora fumanti i grandi regni di Assiria, Babilonia e Persia, non sono più gli dèi al centro della comunità civile – l’ultima briciola di fiducia nella loro potenza e protezione era crollata con le mura dei loro templi – bensì dispotici sovrani che pretendevano onori divini e non esitavano a ridurre i propri sudditi a schiavi, i quali lavoravano in condizioni disumane per arricchire i potenti del momento. Sembrava davvero che i versetti della Genesi avessero ragione, presentando il lavoro come punizione.

Comunque, la triste – e spesso improvvisa – fine di quei regni, esausti dalle infinite guerre di espansione, doveva ravvivare la memoria e la nostalgia delle antiche comunità cittadine, di cui le tavolette cuneiformi avevano tramandato notizia. Mentre la teleologia aristotelica rivendicava anche all’ultimo servo il diritto all’educazione, si riscopriva nel mondo ellenistico il mosaico, dove le scene della mitologia, ma anche della vita quotidiana si comprendevano in una cornice di figure geometriche, simbolo di armonia cosmica e ordine universale. Non fu dunque difficile ai leali amici di Roma, ossia agli Attalidi, di raccogliere i disiecta membra di quanto i testi letterari e la tradizione popolare avevano tramandato sulle prime comunità civiche, sulle loro convinzioni e tradizioni, che le avevano istituite, conservate e ingrandite durante quattro millenni. Queste memorie, corroborate dagli insegnamenti etici di Aristotele, furono perciò le fondamenta, sulle quali sorgeva nel III sec. Pergamon, sintesi e culmine dei valori civili e della dimensione «sociale» del lavoro, dove si rispettano anche le esigenze e desideri del disabile, in quanto anche il portatore di handicap costituisce una di quelle tessere del mosaico, senza la quale l’intera opera rimane incompiuta.

È quasi superfluo aggiungere che l’esempio della capitale degli Attalidi doveva suscitare l’interesse dei Romani, i quali ripristinavano non di rado nelle loro famiglie i modi di convivenza umana e l’alta considerazione, che l’Antico Oriente aveva portato al lavoro. Sono soprattutto le ville vesuviane a rivelarci una realtà che ha dell’incredibile. Infatti, quei saloni dalla decorazione signorile a Boscoreale oppure a Oplontis, proprietà quest’ultima di Poppea Sabina, circondati da ambienti destinati ad abitazione per chi lavorava nei campi, nei vigneti e nei magazzini, non lasciano alcun dubbio: coloro che avevano sostenuto le fatiche della giornata, avevano un sacrosanto diritto di riposarsi in corpo e spirito in vani e giardinetti arredati con gusto, perché quali che fossero le loro mansioni, erano comunque esseri umani che meritavano rispetto e gratitudine per quanto facevano per il bene comune. In mezzo a quei vani e giardini, era sistemato il Lararium, ossia il sacello per gli divini protettori della casa, dei suoi beni e arredi, dei suoi abitanti, dove mattina e sera il pater familias, o chi per lui, offriva doni e preghiere di supplica e ringraziamento.

La realtà attestata dalle ville sepolte dal Vesuvio si doveva riscontrare probabilmente pure in altre ville in Italia e in tutto l’Impero Romano, anche se non possediamo più tracce di quelle dimore. Ma non sarà esagerato sostenere che il mondo romano riabilitava in certo senso la dignità del lavoro e con ciò della persona umana. Sappiamo di tanti casi di sfruttamento e maltrattamento non solo degli schiavi, ma anche della povera gente, indifesa di fronte alle sopraffazioni dei potenti. Ma possediamo anche non pochi documenti letterari ed epigrafici, che rivelano un rapporto di stima e affetto tra datore di lavoro e operaio, rapporti che dovevano preparare la strada all’evangelizzazione e soprattutto alla spiritualità benedettina.

Certo, san Benedetto non aveva bisogno dell’esempio delle ville romane per la sua Regola che unisce preghiera e lavoro. Vi bastavano le laure della Palestina e le regole dei monasteri dell’Egitto. Ma quel che rimane fuori di dubbio è che la spiritualità dell’Ora et Labora doveva rivelarsi di particolare importanza nella Puglia, profondamente radicata nella sua storia millenaria. Dal felice incontro di questa storia, alla quale gli abitanti della regione erano rimasti fedeli nonostante tanti travagli, nonostante tante guerre e devastazioni, con la spiritualità benedettina doveva nascere non solo una comunità civile che recuperava gli antichi valori in spirito cristiano, ma soprattutto una dimensione del lavoro umano, che è autentica partecipazione nell’infinita creatività divina. Forse era proprio per questa concezione, che la Provvidenza aveva salvato in modo misterioso il principio dell’attività umana, di ogni attività umana. Qui nella Puglia, e precisamente a Bari si concretizzava un concetto di lavoro, che non è più nemmeno strumento necessario al sostentamento obbligatorio della persona, e neppure mezzo indispensabile al bene comune, dalla famiglia alla città. A Bari si realizza alla fine dell’XI sec. un lavoro, che è fonte di arte e di cultura, una cultura che unisce le nazioni e le mantiene unite e cristiane per lungo tempo. E quale dignità maggiore possa desiderarsi per un concetto di quella di conservare la pace e un giusto benessere tra i popoli?

Infatti, nel 1087 mercanti e marinai portano le reliquie del santo vescovo di Myra, Nicola, a Bari, che da un conglomerato di chiese, case, botteghe e torri sotto dominio straniero si trasforma subito in città[5]. L’abate del monastero di San Benedetto fuori città, Elia, ottiene dal duca normanno, Ruggero, permesso e sito per la costruzione della Basilica. Questo sito altro non è che la residenza catapanale, eretta a sua volta sul campidoglio del municipium romano. Si trattava dunque della trasformazione dell’antica sede fortificata -  politica, amministrativa e militare – della dominazione bizantina in centro religioso e civile dal carattere ecumenico. Questa trasformazione doveva essere oltremodo incisiva innanzi tutto per la comprensione della Basilica / Cattedrale nell’architettura romanica, cominciando da quella pugliese. Infatti, se fino allora l’erezione delle chiese sui luoghi sacri del paganesimo significava trionfo sulle eresie umane, ma anche recupero di quella scintilla di vero celata in quegli errores, con la Basilica di San Nicola la cattedrale diviene il luogo – simbolico e reale insieme – per esprimere tutti i valori dell’umanità pagana e cristiana, sacri e profani, spirituali e culturali, politici e sociali. Quel che i templi pagani dell’Antico Oriente avevano abbozzato, la cattedrale cristiana lo completa e perfeziona secondo la dottrina della recapitulatio. Per «visualizzare» ciò che più tardi sarà il Leitmotiv di Federico II Hohenstaufen: nulla di quanto esiste è inutile, tutto può e deve utilizzarsi per il bene comune[6], le maestranze –pugliesi, longobarde, normanne, bizantine e arabe –, impegnate nella costruzione della Basilica e nell’elaborazione del suo arredo scultoreo, non scartano nessuno di questi tanti e diversissimi elementi artistici, ma le uniscono in un armonioso organico, che farà della Basilica di San Nicola l’archetipo ripreso dalle cattedrali pugliesi, da autorizzare gli studiosi a parlare del Romanico pugliese.

Ora, se lo stile romanico crea un legame artistico-culturale tra le varie città della Puglia, sotto lo stimolo di Federico II, durante decenni un polo d’attrazione per gli esponenti delle più diverse e lontane culture, i quali lavoravano spesso fianco a fianco con architetti e scultori pugliesi, la Basilica di San Nicola, e dapprima la stupenda cattedra di Elia, fatto vescovo di Bari dallo stesso papa Urbano II, già arcidiacono di Reims e monaco cluniacense, diventa la culla del cosiddetto «Gotico internazionale» che dopo la morte di Federico II nel 1250, saprà mantenere per oltre un secolo l’Europa unita e cristiana dalle Isole Britanniche al Wolga, nonostante i gravi e persistenti conflitti politici che scotevano il continente.

Ma l’ultimo imperatore di casa Hohenstaufen, ispirandosi a quanto Benedettini e cittadini laici hanno saputo realizzare in Puglia, va oltre. Se egli appoggia, da un lato, l’opera dell’Ordine Cistercense, impegnato nella bonifica delle campagne e quindi nella evangelizzazione e promozione umana degli agricoltori soprattutto nell’Europa centro-orientale, egli stesso istituisce insieme al suo fedele amico, Hermann von Salza, l’Ordine Teutonico, il quale sin dalla sua fondazione non doveva combattere gli «infedeli» in Terra Santa, ma evangelizzare le città del centro-nord europeo, e soprattutto dei paesi baltici. I mezzi scelti erano l’apostolato sociale, per cui le donne – l’unico caso tra gli ordini cavallereschi -, si consideravano al pari dei cavalieri[7], e la promozione professionale della gente comune: piccoli artigiani e commercianti. Dopo la morte del primo Gran Maestro, l’Ordine sperimentò tante dolorose crisi. Ma, a prescindere dal fatto che l’Ordine Teutonico è uno dei pochi sopravvissuti senza incisive modifiche, fu soprattutto la sua cura per la dignità del lavoro e dei lavoratori a trovare un’insperata risonanza ancora all’alba della Rivoluzione Industriale. Infatti, prima ancora degli scritti degli esponenti del Marxismo dialettico, ma anche prima della stessa dottrina sociale della Chiesa, rinvigorita dalla Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII, una famiglia di ricchi industriali del Wuppertal (Ruhrgebiet), i Krupp, costruirono per i loro operai villette unifamiliari, lontane dalle ciminiere e circondate da giardini, piccoli ma ben curati, perché anche chi lavora in fabbrica è una persona umana che collabora con il Creatore per il bene di tutti.



[1] Giovanni Paolo II, lett. enc. Centesimus annus  n.4.

[2] In occasione della 91° Conferenza del Bureau International de Travail (3-19 giugno 2003), il delegato della Santa Sede ha voluto dare un taglio di gran lunga superiore al livello prettamente sociale. Pur attenendosi al tema generale della Conferenza: «Affrancarsi dalla povertà attraverso il lavoro», il Segretario del Pontificio Consiglio Iustitia et Pax ha posto nel proprio intervento, ricco di riferimenti all’insegnamento sociale soprattutto degli ultimi pontefici dal B. Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, lo stesso impegno sociale su una base etica radicata nella verità sull’essere umano, pienamente rivelata in Cristo. – Sottolineando la «dignità del lavoro umano» Msgr Crespaldi vede negli sforzi del BIT, che mirano a impegnare gli stessi poveri nel processo di liberazione dalla povertà attraverso il lavoro, non solo uno strumento utile e valido, affinché l’intero processo abbia successo, ma addirittura indispensabile, in quanto anche il più povero ha il diritto e il dovere di esprimere attraverso il lavoro la propria personalità creativa di cittadino (cf. lett. enc. Sollicitudo rei socialis n.15).

[3] Giovanni Paolo II, lett. enc. Centesimus annus  n.4.

[4] Giovanni Paolo II, lett. enc. Centesimus annus  n. 10.

[5] Tant’è vero che non pochi studiosi sostengono che prima dell’arrivo delle reliquie di san Nicola Bari non esisteva.

[6] Basandosi su questo suo principio di fondo, l’imperatore trasformerà i Saraceni da accaniti nemici dei cristiani in fedeli servitori del Sacro Impero.

[7] Questo ruolo paritario delle donne stimolerà Lutero, quando crea l’istituto delle diaconesse.