CORRADINO, LA TRAGICA IMPRESA
DELL’ULTIMO SVEVO
di Angela Abozzi
La battaglia di Tagliacozzo è un avvenimento storico
che ha sempre trovato eco e interesse
nell’animo umano, sia nel lettore frettoloso troppo preso dalle immediate
esigenze del presente, sia in chi voglia scrutare la storia e immergersi nell’atmosfera della
civiltà del passato.
I
poeti, interpreti sensibili dell’animo umano, in genere, di questo fatto
storico hanno colto l’aspetto più commovente e tragico. Dante Alighieri, con la sua ardente foga di “ghibellin fuggiasco”, mette in risalto
la vittoria di Carlo d’Angiò come dovuta a un colpo di fortuna quando
dice:”dove senz’arme vince il vecchio
Alardo”. In un’altra terzina il Poeta colpisce ancora col suo violento sarcasmo
lo stesso Carlo che, per eliminare la dinastia sveva, si macchiò di vari
delitti: “Carlo venne in Italia e, per
ammenda, vittima fe’ di Corradino e
poi, ripinse al ciel Tommaso, per
ammenda”.
Ai romantici piacque far propria l’immagine del
giovane Corradino di Svevia, protagonista della famosa battaglia di Tagliacozzo e cogliere l’aspetto
più commovente e umano della sua vita di adolescente.
A noi,
motivi psicologici, oltre che letterari e storici, c’inducono a fermare
l’attenzione sull’ acerba e sensibile personalità di Corradino. Una
riflessione, per i nostri giorni in cui molta gioventù disdegna responsabilità
e impegno tendendo a degenerare in comportamenti offensivi della propria e
altrui dignità umana: droga e altre forme trasgressive: azioni violente, sassi
dai cavalcavia, pornografia...
°°°°
“Il
giovane principe – dice il Gregorovius –
era venuto crescendo nelle terre bavaresi, nutrendo il suo spirito coi canti
dei poeti del suo paese, con immagini seducenti di eroismi, di opere grandi
della caduta sua casa”
. Erede
di superbi titoli della sua stirpe e di un piccolo ducato, il quindicenne
Corradino (1252-1268), figlio di Corrado IV e di Isabella, viveva in Baviera
presso uno zio materno, quando, dopo la morte di Manfredi a Benevento, i
ghibellini italiani lo sollecitarono a riconquistare l’allora Regno di Sicilia
e a liberare l’Italia dal giogo guelfo, promettendogli collaborazione e aiuti.
Il
pensoso e triste giovinetto, consapevole dell’immane sua responsabilità, ancora
disorientato e smarrito per i recenti sconvolgimenti del suo decadente casato,
non esitò ad accogliere l’appello, sperando che forse il vago sogno di
recuperare il regno perduto potesse diventare realtà.
La
madre Elisabetta di Baviera cercò di opporsi all’ardito progetto del figlio
minorenne, unico erede svevo. Ma Corradino coraggiosamente si strappò dal
disperato abbraccio di lei e si avviò per la sua breve eroica impresa.
Neppure le minacce e le scomuniche del pontefice Clemente IV trattennero
lo slancio di Corradino, poiché tutta l’educazione del giovane era stata
orientata a sviluppare l’amore e la dedizione a quei valori e a quegli ideali
imperiali e religiosi, che erano stati la forza viva dei suoi avi. Né la
sua genuina fede cristiana veniva
minimamente turbata dagli attacchi e dalle minacce papali, mentre si avviava a
combattere l’Angioino che riteneva usurpatore del suo trono.
Egli
intuiva abbastanza chiaramente la distinzione del potere temporale e di quello
spirituale ed agiva di conseguenza. Difatti i tempi non erano mutati per i
protagonisti: troppo aspre e non ancora
spente le lotte tra l’autorità imperiale e quella ecclesiastica
Comunque, pur nell’euforica giovinezza,
nell’età dell’io che si afferma e si sviluppa, Corradino risponde con la
serietà e la responsabilità dell’adulto alla grande chiamata: è questa la voce
che proviene da tutte le parti d’Italia. I Ghibellini sono pronti a schierarsi
ai suoi ordini per ritrovare insieme quella unità cui aspirano da tempo.
“Per
universam Italiam faciemus pacem et concordiam generalem”, promette, in una sua
lettera ai Ghibellini, Corradino entusiasta e pronto alla guerra
°°°°
.Verso
la fine del 1267, investito dei pomposi titoli di imperatore di Gerusalemme e
di Antiochia e re di Sicilia, nominati i capi del numeroso stuolo di cavalieri
e di fanti, in compagnia del fedele cugino Federico d’Austria, anche lui
giovanissimo, Corradino partì per attuare la sua impresa. Attraversò il Tirolo
ed il Trentino, il 20 ottobre giunse a Verona, ove sostò quasi un mese;
rinsanguò l’esercito di elementi ghibellini che accorrevano da altre città italiane
e giunse a Roma tra entusiastiche grida di trionfo.
A Roma
trovò un altro autorevole fautore, don Arrigo di Castiglia, che rimpinguò le
finanze dell’esercito svevo, confiscando il tesoro di San Pietro ed altri beni
di privati cittadini. Indi, Arrigo, insieme con altri ghibellini romani, si unì
a Corradino nell’impresa. Fu concordato
un piano di battaglia e il percorso più
agevole per raggiungere Carlo in modo da affrontarlo entro i confini del regno
usurpato.
Baldanzose le truppe intrapresero
la marcia percorrendo la via Valeria e,
dopo aver superato i primi monti di Abruzzo, si accamparono nei Piani Palentini
presso la Sgurgola marsicana.
Intanto, Carlo d’Angiò non trovava pace in seguito alle recenti
conquiste del regno, per le continue sommosse delle città ghibelline ribelli.
E, proprio mentre cingeva d’assedio Lucera , ebbe notizia dell’avanzata di
Corradino verso questa città. Tolse ivi l’assedio e, a marce forzate, spinse il
suo esercito verso quello svevo, per affrontarlo in campo aperto. Raggiunto uno
dei colli adiacenti ai Piani Palentini,
si accampò a due miglia dall’esercito di Corradino.
Fra i due
accampamenti scorreva il fiume Imele. Ma l’esercito svevo era più numeroso di quello angioino,
per cui Carlo con il suo saggio stratega, il Conte di Vallery, reduce da una
campagna contro i Turchi, concertò subito un piano di azione che doveva
supplire a tale inferiorità. Decise di
scaglionare l’esercito in tre schiere, lasciando la più agguerrita come
riserva, dietro la collina in cui si era accampato.
La prima
schiera era comandata da Enrico de Cousance, la seconda da Guglielmo Stendardo e la terza da Carlo
stesso. Il de Cousance per di più, ebbe
l’incarico di indossare i panni e le
insegne regali, per trarre in inganno gli svevi.. La battaglia , fu , insomma
tutta una serie di tranelli orditi dall’astuto Vallery. Infatti era facile
trarre in inganno Corradino, inesperto adolescente, quantunque il suo esercito
fosse ben saldo ed agguerrito.
Ma anche
l’esercito svevo fu diviso in tre schiere. La prima composta di Tedeschi, con a
capo Federico d’Austria, la seconda di Italiani, comandata da Galvano Lancia, e
la terza di Spagnoli, guidata da Arrigo di Castiglia. Però costoro, forse, non
erano né preparati agli agguati, né erano troppo esperti dei luoghi.
Furono gli Svevi ad attaccare per primi con impeto, la mattina del 23 agosto
del 1268. Lo scontro fu sanguinoso e feroce da ambo le parti. Le prime due
schiere di Carlo furono in breve decimate.: Carlo vide a distanza cadere e
morire il maresciallo de Cousance. Ma la
morte di questo determinò nei due capi diversa reazione; per lo Svevo poteva
significare vittoria, per l’Angioino rimorso e inquieta attesa di rivincita
Comunque, a un dato momento, gli
Svevi, convinti di aver ucciso Carlo nella persona del de Cousance., cedettero
di aver vinto e si sparpagliarono disordinatamente sul campo di battaglia ,
buttando via le armi e dandosi alla preda, mentre Arrigo di Castiglia, con un
suo reparto, si dava ad inseguire quelli che credeva i resti dell’esercito angioino.
Fu allora
che Vallery gridò al re: “E’ tempo, o sire, la vittoria è nostra”, e lo incitò
ad uscire dal nascondiglio con la riserva, che si lanciò improvvisamente contro gli avversari
sparpagliati.
Di
fronte all’assalto degli Angioini, Corradino e gli altri capi svevi, tentarono
disperatamente di riordinare le file dell’esercito, ma invano, perchè i
loro soldati in breve furono massacrati e dispersi dall’impeto di quelli. Corradino allora, non sapendo più che fare, si diede
alla fuga con un piccolo seguito di superstiti.
Quando
Arrigo di Castiglia tornò sul campo con
i pochi uomini rimastigli, ormai era troppo tardi, poiché le sorti della
battaglia si erano capovolte a favore di Carlo. E nonostante che gli Angioini
fossero rimasti più numerosi sul campo di battaglia, Arrigo volle tentare un
ultimo assalto, ma poco dopo anche lui fu costretto a fuggire, per evitare di
essere sopraffatto.
Si
potrebbe forse accusare Corradino ed i suoi collaboratori di essersi lasciati
sorprendere dal nemico in stato di riposo, per aver creduto ciecamente ad una facile vittoria. Ma
cosa si può pretendere.
In fatto di
astuzia e di scaltrezza da un adolescente che esordisce per la prima volta in
campo di battaglia? In fondo, egli fu tempestivo a riprendere le redini del suo
esercito scompigliato e a rianimare la lotta disperata contro un nemico che credeva ormai sterminato.
I cronisti
riferiscono che Corradino ed altri suoi
seguaci nella fuga riuscirono a raggiungere Roma. Di qui essi si diressero
verso il mare di Anzio, dove si imbarcarono su una navicella, alla svolta della
Sicilia ribellatasi a Carlo. Ma la fuga di Corradino e degli altri non passò inosservata. Il loro nobile aspetto, il
travestimento, qualche inavveduta
manovra destarono sospetti in Giovanni
Frangipane, feudatario del luogo e del
castello proteso sul mare, che prende il nome sul fiume Astura. Non parve vero
al Frangipane, che aveva accolto i fuggiaschi con apparente cortese ospitalità,
di vendicarsi dei torti ricevuti da Manfredi, zio di Corradino, allo scopo di
attirarsi il favore di Carlo e del Papa.
Quindi fece raggiungere i fuggiaschi da un rapido veliero, quando erano già in
alto mare. Corradino fu arrestato.
Il
Frangipane non fu sensibile allo sguardo innocente e smarrito del giovinetto,
né si commosse alle umili e sommesse invocazioni del principe, perchè salvasse
almeno i suoi compagni di fuga. Consegnò invece i prigionieri nelle mani di
Carlo.
Così,
contro Corradino e i suoi compagni fu ordito un processo. All’astuto Carlo
l’uso di questo strumento scenico avrebbe dato l’apparenza della legalità, per
appagare la sua ambizione di vincitore e per salvare la faccia nei confronti
del popolo.
Corradino fu accusato da giuristi e da autorevoli personalità, tra
l’altro, di essersi comportato da invasore e traditore, di aver sobillato il popolo e di aver tentato di usurpare il regno di Sicilia. Ci fu la difesa di
qualche coraggioso, che ribattè contro le accuse, ma invano. La condanna a
morte fu proclamata inesorabilmente.
La
mattina del 29 ottobre 1268, nella piazza del
mercato di Napoli, era già pronto
il palco col boia per eseguire la sentenza. Ma si volgeva proprio a vantaggio di Carlo la scena macabra offerta
al pubblico in quella piazza? Nella stessa mattinata Corradino dettò il suo
testamento a Giovanni di Brigaudy, nominò eredi gli zii di Baviera, assegnò
parte dei suoi beni ad alcuni Monasteri,
affinché si pregasse per la sua anima.
Salito sul
palco, Corradino, offeso nella sua dignità, colpito dalla ingiustizia e dalla
calunnia, fieramente si eresse e con
voce decisa, piena di orgoglio e di ira,così parlò: “Dio mi ha fatto mortale e
io devo morire, ma io sono condannato ingiustamente. Con piena conoscenza di
causa ho posato i miei occhi sui diritti dei miei antenati e sulla dignità che
essi mi hanno trasmesso come un patrimonio… se non mi si stima degno di
perdono, che si abbia almeno pietà dei miei
nobili compagni di sventura: che essi non prendano parte alla mia
infelice sorte. Ma se non posso ottenere nulla per essi… che il ferro colpisca
me per primo” . Infatti, per primo
Corradino chinò la testa sotto il colpo di scure e “giacque come fiore purpureo
reciso da falce spietata”.
L’estremo
suo atto eroico fece sussultare il
popolo presente. Il coraggioso atteggiamento del giovinetto destò sete di
giustizia e di verità, risentimento e odio contro la ferocia degli uomini, il
cui giudizio era offuscato da ambizione e vendetta.
Per
questo forse, il leggendario guanto, che si dice lanciato da Corradino per
chiedere giustizia al popolo, avrà trovato risposta nell’animo di tutti i buoni e puri di cuore.
Angela Abozzi