IL “CONVITTO S. BENEDETTO” E IL POPOLO DI SUBIACO

Fino agli anni ’60: latino e greco al centro di un paese abitato da artigiani e piccoli coltivatori. Il mancato rapporto fra popolo e cultura.

Dai primi anni del ’900 e fino agli anni ’60, al centro di Subiaco, accanto alla Chiesa di S. Andrea, ha funzionato un Ginnasio parificato (e poi un Liceo privato), nella stessa sede destinata al Seminario istituito da Pio VI, allo scadere del ‘700.                                                                                                                                  Quel benemerito Papa - il cui simbolo figurava nello stemma comunale di Subiaco accanto ai classici tre laghetti neroniani- aveva pensato in grande a favore di Subiaco, finanziando la costruzione della Cattedrale, del Palazzo del Seminario, dello stradone fino alla Rocca, della Via Gregoriana. Un nuovo impianto urbanistico.  Così Subiaco diventava “città”.                                                                                                             Le autorità sublacensi decretarono, nel 1789, la costruzione dell’Arco Trionfale in omaggio e ringraziamento a “Papa Braschi”.

Il Seminario fu dotato del meglio per quei tempi: camerate per i seminaristi, una ricca biblioteca (denominata “Piana”), aule scolastiche, sale per riunioni, cucine, refettorio, spazio esterno per la ricreazione.

Vita “interna” del Convitto S. Benedetto

Quando il Seminario fu trasferito in Santa Scolastica, quelle strutture passarono al Convitto. Che accoglieva, in collegio, un centinaio tra “ interni”; “semi-convittori” (che risiedevano “a pensione” presso famiglie private di Subiaco) e “esterni” (che andavano solo a lezione nel Convitto).

Chi erano i convittori?

Gli interni provenivano dai paesi prossimi a Subiaco, da famiglie benestanti di commercianti, proprietari, professionisti. Allora era inconcepibile fare il pendolarismo casa-scuola.

Così i “semi-convittori”, che mangiavano e dormivano presso famiglie di sublacensi. Gli ”esterni” - sempre pochi – erano di Subiaco.

La retta da pagare a carico delle famiglie non era leggera. Una retta si pagava anche per la frequenza del seminario Diocesano di Subiaco.

I professori e il preside erano Padri Benedettini di Subiaco, “distaccati” dalla Comunità. Nel tempo poi arrivarono anche professori laici, provenienti specialmente dal Sud d’Italia.

Ovviamente il modello del Convitto erano i modi di vita interna di un Seminario: studio serio e preghiera. D’altra parte in Francia come in Italia, lo Stato aveva creato le Scuole Normali e i Convitti Nazionali su quel modello organizzativo e didattico, quasi a specchio e sfida laicista ai Seminari cattolici.

Si faceva molto conto sul valore dell’impegno continuo degli studenti nell’arco della giornata: sveglia alle sette; pulizie personali; preghiere; S. Messa quotidiana; colazione; breve tempo di studio personale, lezioni fino alle tredici; pranzo; breve riposo e poi compiti e studio in silenzio, con la presenza e con la vigilanza di un Istitutore per ogni sala; breve riposo; cena;  riposo e sonno in grandi camerate, e sempre, con un letto circondato da cortine l’Istitutore.

Nelle feste: passeggiata per le vie di Subiaco, in divisa, due per due, sorvegliati dal solito Istitutore (che per questo a Roma era chiamato “pedante”); qualche gioco; recitazione e canto in alcune “Accademie-recite” l’anno; nel Mese Mariano gli studenti più grandi incaricati di “recitare” un pensiero mariano, alternandosi con alcuni professori. I seminaristi, emozionatissimi, recitavano a Natale una “predichetta” nella chiese.

L’impianto didattico era molto semplice, di tradizione secolare: lezioni “frontali”, interrogazioni, valutazioni (voti), selezione dura. I libri di scuola, tenuti, con i quaderni nel vano sotto la tavoletta del banco individuale, erano fondamentali e scandivano, con i vari capitoli, i tempi del programma. Studio eminentemente mnemonico. I professori erano tutti bravi nelle loro “materie” (il latino e il greco erano al vertice degli apprendimenti, anche se non mancava un laboratorio di scienze).

Per la disciplina bastava qualche punizione: privazione del gioco, della passeggiata o della frutta e la minaccia incombente di espulsione. Proprio come avveniva nei seminari.

Si dava per scontato che le lezioni del professore fossero chiare, data la sua competenza nella materia specifica: se lo studente non progrediva era colpa sua,: “si applica poco”. Questa spiegazione non reggeva per i convittori, perché studiavano tutti tassativamente per lo stesso numero di ore.

Non c’era neppure un accenno dello psicologo, per risolvere eventuali disagi di giovani adolescenti, privati della famiglia o comunque costretti in binari rigidi di tempi e di comportamenti. Tutto si risolveva con il ricorso all’Istitutore o, in ultima istanza, al Padre Rettore. Anche per la più piccola infrazione ci si doveva scusare esplicitamente. Dopo il colloquio, una soluzione si doveva trovare. I genitori erano ammessi al Convitto solo nelle feste.  In quel caso, col permesso del Preside, il convittore poteva andare a pranzo con i suoi.

Qual era il clima interno delle classi e del convitto in generale? Non c’era una rigida repressione, ma il controllo sì. Insomma non era né un carcere, né una caserma; ma un’ istituzione abbastanza chiusa, nella convinzione che per istruire e formare un ragazzo bastasse il convitto, senza legami con l’ambiente esterno e la sua “cultura”-vita. Ovviamente capitava che ci fossero alcuni studenti capi naturali e alcuni altri “capri espiatori”. Non c’era il bullismo come lo registriamo oggi: per molto meno si veniva espulsi.

Insomma il Convitto S. Benedetto era un’isola di studi in un paese agricolo e artigiano povero, lontanissimo da ogni scolarizzazione oltre la quinta elementare.

Eppure il popolo intuiva che tutto quel latinorum doveva pur servire a qualche cosa, se chi conseguiva la licenza ginnasiale, diventava direttore di banca o funzionario: comunque faceva carriera. Nel 1915 un gruppo di genitori si organizzò e istituì una Scuola Tecnica privata, che ebbe un certo successo, anche se incontrava difficoltà nel reperire i professori (di solito, professionisti locali) e nel pagarli adeguatamente.

Per alcuni anni in Subiaco c’erano: il Convitto S. Benedetto; il Seminario diocesano in Santa Scolastica e il pre-seminario in contrada S. Michele: più di duecento giovani immersi negli studi umanistici, filosofici e teologici, con una cinquantina di professori esperti. La biblioteca “PIANA”, recava una lapide con una scritta che minacciava la scomunica a chiunque avesse osato portare via anche un solo libro. Figurarsi! L’intera biblioteca fu manomessa!

Subiaco come una piccola Atene? Certo tutto era predisposto per far studiare pochi, escludendo, con benevola trascuratezza, tutti gli altri, impegnati nel durissimo lavoro quotidiano. La stessa cosa accadeva ad Alatri (Collegio Conti- Gentili) ,  Anagni e  Tivoli e in altri medi centri del Lazio, situati intorno, ma non vicinissimi a Roma.Nella constatazione che pochi allora potevano recarsi a Roma per studiare, si era costituita una cintura di cittadine attrezzate per gli studi. Era già qualcosa, che non possiamo giudicare con la sensibilità e le esigenze di oggi.

Questo sistema ha retto per molto tempo. Poi, la migliorata circolazione stradale, l’introduzione dell’obbligo scolastico fino alla terza media, la contrarietà delle famiglie a lasciare fuori di casa per anni pre-adolescenti e adolescenti, hanno fatto crollare tutto il sistema. Inoltre, nel 1939 è stato istituito l’Istituto Magistrale statale che consentiva a tutti quelli che volevano proseguire gli studi dopo la terza media di iscriversi a quella scuola superiore. Per molti sembrò del tutto naturale “passare” dalla scuola media al Magistrale, che specialmente nei primi anni, ebbe vita difficile ed esaltante, e che rappresentò per le famiglie povere uno sbocco obbligato, verso gli studi superiori.

I convittori erano e si sentivamo privilegiati. In questi centri medi di studi, in provincia, non dovevano confrontarsi con orizzonti e “concorrenze” più vaste e complesse, tipiche della grande città. I professori erano bravi (al massimo, si diceva: “Non sa spiegarsi, ma è un buon latinista grecista storico”).

Una decina di Padri benedettini Professori erano del tutto dediti all’insegnamento, dispensati dagli “atti comuni” della loro Comunità – non si sa se privilegiati o sacrificati – ma ammirati per il loro stare fuori da ogni altra faccenda che non fosse la scuola. I Monasteri potevano permettersi questi “distacchi” dato l’elevato numero di Padri allora presenti..

Anche i seminaristi erano moltissimi. In dialetto per indicare moltissime persone, si diceva:” nu ssiminariu ‘e gente!”

Quando il famoso giornalista Ennio Mantella, oriundo di Jenne, propose al P. Abate Dom Egidio Gavazzi di aderire a “ Serra Internationalis”, un’organizzazione che promuoveva le vocazioni sacerdotali in tutto il mondo,  egli rispose di sì, ma che a Subiaco c’erano tanti seminaristi che si dovevano rimandarne alcuni, perché in esubero rispetto alla capienza edilizia e organizzativa.

Il popolo nel suo complesso non ammirava affatto questi studenti, destinati a diventare "capi di tutto": del clero, del Municipio, degli Uffici, della Pretura, delle professioni ( soprattutto  avocatu”). Li considerava, a torto, ” nullafacenti”. I giovanissimi contadini e lavoratori se incontravano uno studente, lo motteggiavano perché lo trovavano sempre impacciato e debole, e alla prima occasione, giungevano perfino a strattonarlo e … a picchiarlo!

Le famiglie di Subiaco, da sempre alle prese con la scarsità di redditi, anche se autosufficienti dal punto di vista dell’alimentazione procurata dai terreni coltivati, come prendevano piccolissimi “a balia” dal Brefotrofio provinciale, tanto più ospitavano “a pensione” qualche studente semi-convittore.

Anche questo procurava un’integrazione di reddito.

Si racconta di una Nannina, dalle parti del Campo, che teneva in casa uno studente e ogni volta che questo ragazzo mangiava qualcosa gli scandiva il prezzo di ciò che stava mangiando! Divenuto adulto e professionista, quel ragazzo, non poteva dimenticare la continua messa a punto sul prezzo di ogni suo boccone! Le ragazze sognavano talvolta impossibili nozze con qualche studente, specialmente di quelli che avevano genitori importanti, ad Avezzano, nel Reatino, a Trevi, ad Arsoli, a Riofreddo, a Carsoli e nella Piana del Cavaliere…

E’ accaduto invece che i professori del Convitto si siano felicemente sposati con ragazze di Subiaco e sono restati qui, non più legati al Convitto (che ovviamente aveva dato loro vitto e alloggio ma uno stipendio non certo elevato, anche in relazione ai tempi). Per molti professori Subiaco era comunque un trampolino verso Roma.

Conclusione

Ormai nella Piazza S. Andrea è restato  il palazzo e la scritta su pietra “Convitto S. Benedetto”. Quei locali, prima inaccessibili ai non addetti agli studi, sono ora aperti alla Parrocchia, alla Caritas, all’Azione cattolica, alla libreria cattolica, agli incontri spirituali e culturali. Dovrebbe essere ulteriormente valorizzato.

E di quell’antica esperienza che cosa dire?

Non è più riproducibile. Può solo insegnare il sacrificio e l’impegno quotidiano in cui lo studio era “serio al pari di un lavoro” per docenti e discenti e la disciplina severa. Questo è ancora oggi, quando tutto sembra mutato, un valore desiderabile.

Allora i Padri benedettini di Subiaco non hanno più incombenze e responsabilità in materia educativa, formativa e scolastica? Al contrario!

Intanto la vita stessa della Comunità monastica è modello e proposta di vita cristiana e civile: “Ora et labora” non solo nel Medioevo, ma oggi. La grande Liturgia è essa stessa una scuola e apostolato (non per nulla si parla di “Apostolato liturgico”), peraltro impreziosita dal canto gregoriano. La Comunità gestisce inoltre la grande Biblioteca e il museo “Ceselli”, i convegni e congressi, le mostre: fonti e origine di cultura per molti. Le stesse visite guidate dei pellegrini e turisti, gestite con “intelletto d’amore” e capacità di lingue e organizzazione, sono un’occasione formativa di Fede e cultura. Sono cultura di prima linea le numerose e qualificate pubblicazioni, la Rivista monastica “Il Sacro Speco di S. Benedetto”e altri scritti. A S. Scolastica hanno sede i Seminari periodici - di livello accademico - denominati “Laboratori sublacensi”, su temi socio-culturali legati all’attualità italiana ed europea, ispirati al pensiero cristiano e alla tradizione benedettina, che entrano nel dibattito pubblico. Qui è attiva una fornitissima libreria, specializzata in libri di contenuto spirituale e storico. Più recentemente la Biblioteca di S. Scolastica è diventata centro per la conoscenza del pensiero e lo studio dei numerosi libri di carattere biblico e liturgico del Prof. Tommaso Federici (che insegnò per dieci anni presso i Monasteri sublacensi), d’intesa con la Fondazione: www.fondazionetommasofederici.it.

Esiste ancora la “TIPOGRAFIA EDITRICE SANTA SCOLASTICA”, erede di una tradizione che definire gloriosa è poco, poiché si può considerarla sorta insieme con la stampa a caratteri mobili in Italia, nel 1465.