PRATICHE SOCIALI POPOLARI QUOTIDIANE NEL SUBLACENSE
Usi e costumi qui descritti si riferiscono alla
tradizione ancora viva fino agli anni ’40 e’50 del ‘900. Prima dell’alfabetizzazione
generalizzata.
La domenica
La domenica era davvero
dedicata al “ristoro” delle forze fisiche, dopo il duro lavoro quotidiano. Per
le donne e madri di famiglia non era così. Ancora a buio sono già andate alla Messa e stanno lavorando in casa. Un lavoro che nessuno riconosce loro. Tutti i
familiari attendono il cibo, le camicie stirate ecc, anche di domenica. Nel
pomeriggio più che la passeggiata e il gelato (uso borghese e “cittadino”), si
torna in chiesa per i Vespri (cantati in latino) e per una visita al cimitero.
Le altre feste
Le feste del Santo Patrono
S. Benedetto o dei Patroni delle varie arti e mestieri, sono seguite da
tutti e prevedono il ritorno a Subiaco degli “oriundi” residenti a Tivoli o a
Roma. Una cittadina quasi tutta impegnata nell’agricoltura e nell’artigianato, “necessariamente” onora S.
Antonio (contadini e allevatori), Sant’Omobono
(sarti), S. Eligio (fabbri), Santa Barbara (minatori) S. Giuseppe (falegnami).
E poi, Santa Lucia, S. Vito, S. Giovanni dell’Acqua. Un rilievo eccezionale
hanno le feste dell’Assunta e della SS. Trinità, con un loro specifico
programma.
In tutti gli altri casi, il
Santo è onorato con una piccola processione mattutina dalla chiesa alla casa
del “festarolo” di turno. Precede un
tamburino, che ostenta, legato al tamburo con una cordicella, un bel ciambellone, che è anche la sua retribuzione. Una volta a
casa del “festarolo” si depositava la statuetta e si
distribuiva un sostanzioso rinfresco ai presenti, di solito, una trentina di
persone. In una giornata domenicale i “commensali” sarebbero stati il doppio.
Il festarolo affrontava queste e altre spese. Per cui
si diceva: “Calecare e feste de Santi le podo
fa’ i benestanti!”. E contro quelli
che, guarda caso, andavano a “scroccare” un pasto in tutte le feste possibili,
si diceva: ” Addò sona nu tammuru, issu ci sta sempre!”.
Si pensava la stessa cosa di qualche prete che partecipava a tutte le
processioni. Allora un prete, in giorno
feriale, anche di mattina, si trovata sempre, visto che preti e frati erano,
per così dire, in soprannumero.
Forme di saluto
Tra persone povere il saluto era sempre un po’
stravagante. Il “buon giorno” era
raro. “E’ mò
che s’à fattu
giorno! “,si rispondeva. Quello era il saluto formale “tra signori”.
Normalmente si pronunciava il nome di battesimo della persona da salutare,
seguito da un “comme iamo”?
Talvolta, con evidente ironia, si aggiungeva: ” Ancora campi?”. Se si
passava dieci volte davanti alla porta di un conoscente, lo si chiamava e
salutava tutte le volte! Verso persone “di rango”, il nome di queste persone
era preceduto da un “Sor” o “Sora”.Un qualsiasi impiegato aveva
diritto al “Sor”!
Visita ad un malato
Queste visite c’erano ed
erano frequenti. Il malato era coccolato da amici e conoscenti che gli
auguravano e “prevedevano” una pronta guarigione. Non mancavano consigli, di sapore
empirico, fondati sul buonsenso e su casi singoli effettivamente capitati, su
come curarsi.
Viaggi
Viaggiare era considerato
faticoso e pericoloso. Si partiva
solo se non se ne poteva fare ameno. Altro che viaggi per turismo! Pendolarismo
con Roma? Impensabile. C’era solo il viaggio a piedi verso
Le prime auto
Le prime biciclette,
motociclette e auto, apparivano un portento. I primi ciclisti (bici di
Le sarte
Quello della sarta era un
lavoro apprezzato. Quasi tutte le ragazze andavano a imparare il mestiere da
una sarta qualificata. Non tutte riuscivano a cucire anche un semplice abito da
donna o bambino, ma tutte imparavano a rammendare, attaccare bottoni, fare
orli, asole, accorciare maniche. L’abito da uomo era cosa da sarto raffinato.
Le aspiranti sartine stavano
accanto alla finestra e agucchiavano, ma intanto “tagliavano e cucivano” su
tutti quelli che si trovavano a passare. Risate, ironie, battute salaci erano
all’ordine del giorno. Ne facevano le spese soprattutto i giovanotti che
apparivano particolarmente timidi o impacciati.
I compari/ Le comari
Il legame di “compare”
e “comare”
era molto sentito. Era una forma attenuata di parentela. Si diventava compare o
comare per le più diverse ragioni: perché si era stato padrino o madrina di Battesimo
o di Cresima o testimone alla nozze; perché c’era una forte e antica amicizia
di famiglia. C’erano pure i “Compari de
San Juanni”, che avevano preso parte ad una
misteriosa cerimonia semi-pagana a S. Giovanni dell’Acqua.
La scuola
La scuola era sentita come un
peso. Quel dover parlare per forza in lingua italiana, in una situazione di
dialetto parlato in casa e fuori, creava seri problemi. I maestri elementari
dovevano imporsi per ottenere risposte in italiano. Ma quanti svarioni orali e
scritti! E quante brutte figure! Talvolta, da parte degli adulti, si volevano
tradurre in italiano perfino i soprannomi dialettali. Un affettuoso soprannome
“Piucchiùsu”, diventava “Pidocchioso! Ju tufu diventava “il tofo”,ju ciattu, diventava “ il ciabatto”.
Il matrimonio , il pranzo , il viaggio di nozze
Il matrimonio era un’impresa
serissima, non solo per i nubendi - di
solito giovanissimi e squattrinati - ma per i genitori dello sposo e della
sposa. In tempi più arcaici, alle fidanzate il confessore consigliava di farsi
scrivere la “carta di matrimonio”, cioè un impegno formale a
convolare a giuste nozze, nei tempi e nei modi stabiliti: insomma un contratto!
Fino agli anni ’40 si “portavano le
serenate” sotto la casa della futura sposa. Terminati i canti e i suoni, s’invitavano
in casa i suonatori con un cerimonioso: “
Sallìte!. Salivano i musicanti e si festeggiava a base di
pastasciutta, vino e altre musiche, fino a tardi. Poi, “buonanotte ai sonatori!”.
Le spese erano gravose per
tutti: genitori, sposi e perfino invitati alle nozze. Talvolta la famiglia
arrivava a indebitarsi o “a mette ju sòccio” al
terreno, per disporre di qualche somma. Si spendeva per la casa, il corredo, il
mobilio, (raramente il viaggio di nozze).La casa era rimediata da locali dei genitori, magari riadattati: camera e cucina.
Raramente si trattava di casa nuova, di proprietà .Era raro anche l’affitto,
perché raro era il reddito certo, in denaro. Il corredo era onere della
famiglia della sposa: materasso”vegetale”, biancheria per il letto, per la
tavola. Speso le ragazze preparavano fin da giovanissime i “rotoi” di stoffa grezza per il matrimonio.
Si diceva: “Tutto a dodici, tutto a ventiquattro”, a significare il numero
dei “pezzi”. Si scherzava: “Sì, tuttu a dodici”, sei
mangnanu prima e sei doppo! Il mobilio era ridotto al minimo, almeno
all’inizio: letto, un tavolo due sedie e un armadio. Proprio quello che neppure
l’Ufficiale Giudiziario poteva pignorare,
in caso di pagamenti non puntuali. I regali c’erano ed erano utili: pentole,
piatti, asciugamani e altre “utilità” per la casa.
Il pranzo di nozze si
allestiva in casa, con un gran daffare per le donne. Era una mangiata storica,
durava alcune ore , innaffiata da tanto vino. Si diceva che questo “faceva
allegria”. Qualcuno si poteva permettere il viaggio di nozze, ultimo residuo
antichissimo di quando le mogli venivano “portate via” con astuzia e violenza.
Chi poteva andava a Roma, a Napoli o a Venezia. Si dice che in qualche caso gli
sposi prendessero il treno della Ferrovia Mandela - Subiaco, scendevano a Nocchitella e poi, di nascosto rientravano a casa, dove
restavano per qualche giorno…
Gli invitati dovevano quasi
sempre comprarsi un vestito nuovo e questo era gravoso.
Subiaco e
Nonostante la grande
vicinanza con
Subiaco e Tivoli
Con Tivoli, i Sublacensi poveri hanno sempre avuto un rapporto di
inferiorità economica e superiorità (vera o presunta) storica e culturale. Portavano
ad esempio la battaglia di Campo d’Arco, contro la gabella imposta dai
tiburtini “còtti ‘nfronte”
e il fatto che i Monasteri benedettini
erano a Subiaco e non a Tivoli!
Subiaco e Roma
Se avessero potuto, i sublacensi poveri non sarebbero mai andati a Roma. A Roma
associavano l’idea e il timore di stanchezza, pericoli di truffe, Tribunale,
ospedale e carcere. Ma il lavoro stava lì: portierati, guardianie, custodi nei cantieri, ma soprattutto i lavori
agricoli stagionali nella vasta Campagna Romana. Per dire che uno se la passava
male si diceva:” Sta jettatu pe’
Roma”!
Lavoro
La disoccupazione è un male antico. Si può dire che solo le
guerre portavano tutti gli uomini a “occuparsi”, perfino come volontari, nei
teatri di guerra. Gli uomini si presentavano nei cantieri e ripetevano: ” Scusi
ingegnere, c’è bisogno di manovalanza?”. Di solito la risposta
era negativa. Arrivavano a invidiare anche il lavoro di un qualsiasi lavoratore
in divisa, figurarsi di un impiegato. Lavorare al coperto, “dentro”,
nell’edilizia era già una fortuna, nelle giornate piovose in cui tutto il resto
è fermo e la paga è sospesa. Quanto alla garanzia del lavoro: “ Ogni
giorno è sabato!” si sentivano ripetere da sorveglianti e padroni. Come
a dire: “Ti pago e te ne vai”.i Sindacati dovevano ancora
venire. Un’idea di tutto ciò la può dare oggi la condizione degli immigrati
extracomunitari.
Pratiche religiose e devozioni particolari
Oltre le Messa dominicale e i
Vespri, quasi tutti facevano parte di qualche Confraternita per il culto
particolare a qualche Protettore. Nel mese di maggio si cantavano le “Laude” davanti alle immagini della Madonna. Spesso in
casa si recitava il Rosario.
La lettura
Chi leggeva il giornale
acquistava un certo prestigio. Ma un giornale costava sei soldi, troppo. I
libri poi erano inaccessibili, tranne le Massime
Eterne e altri libri di devozione avuto in occasione della Comunione e
Cresima (che si ricevevano insieme). Bibbia
e anche i soli Vangeli c’erano
raramente in casa, ancor più raramente erano letti. Gli stessi parroci non ne
stimolavano la lettura, accontentandosi di ciò che loro stessi sunteggiavano in
occasione dell’omelia domenicale. Per fortuna dall’altare parlavano in normale
lingua italiana! Queste omelie avrebbero dovuto essere un alimento spirituale
di verità di Fede, invito alla carità fraterna e alla fiducia in Dio. Troppo
spesso erano una serie di visioni terrificanti di Inferno, fatterelli dalle vite di Santi e miracoli a piene mani. I primordi
dell’Azione Cattolica segnarono un piccolo avanzamento a favore di una
catechesi più improntata al Vangelo.
Questo stato di cose non
poteva non favorire una diffusa superstizione, con pratiche ingenue, pretese
magiche, soprattutto a scopo terapeutico. Per fortuna raramente si ricorreva
alla magia nera, le cosiddette fatture.